Prepariamoci
ad uscire di casa,

non a scappare a testa bassa

Che emozione: stiamo per tornare alla normalità!

Ma ci ricordiamo che la “normalità” era già piena di problemi e di difficoltà?

Con quale ricchezza o con quale ulteriore carico di problemi ci prepa-riamo al ritorno alla quotidianità?

Quali cambiamenti siamo determinati a fare?

Forse in questo lunghissimo “ritiro forzato ed angoscioso” abbiamo vi-sto aumentare a dismisura le situazioni di conflitto, forse anche solo un tono un po’ sopra le righe ha scatenato una rissa.

O semplici sguardi e piccole reazioni aggressive, insieme a messaggi negativi ci hanno creato dolore, ed hanno aumentato, anziché alleviare, il dramma sanitario, economico e sociale in atto.

Le relazioni che abbiamo coltivato con il passare degli anni e che do-vrebbero dare il senso dell’appartenenza e la sicurezza di essere rico-nosciuti e valorizzati per quello che si è, forse si sono rivelate deboli e superficiali. Magari sono state occasioni di delusione, di solitudine vis-suta in compagnia, di incomprensioni ed insofferenza, di vessazioni, di sofferenza sovente né esplicitata, né condivisa, finanche di violenza e mobbing familiare.

Anche le discussioni possono aver assunto un andamento anomalo: forse si sono alzati i toni del linguaggio, il più forte, o il più prevaricatore, semplicemente si è imposto senza sforzarsi neanche di convincere.

L’armonia, la tenerezza, la serenità possono essere rimasti bisogni fru-strati. E magari, a seguito dei condizionamenti di cui siamo vittime (non devono trapelare difficoltà, fatica, errori!), ci siamo sforzati di far finta che tutto sia a posto, in regola, in ordine, lindo e perfetto.

Tutto ciò ha comportato e comporta spreco di energie. Possiamo curar-le per uscirne cresciuti ed accresciuti? Possiamo trasformarle in energia positiva, propulsiva di cambiamento?

Ha forse ragione Klingsor, il pittore protagonista del racconto scritto da Hermann Hesse nell’estate del 1919, che attraversando gli ultimi giorni del suo quarantaduesimo anno della sua vita, che si accingeva a condurre deliberatamente a termine, all’insegna di un cupo pessimismo conversava con 1’amico astrologo

“alla fine di un mese di luglio dissoltosi in fiamme”: “Ognuno ha le sue stelle, disse Klingsor lentamente, ognuno ha la sua fede. Solo ad una cosa io credo: al tramonto. Viaggiamo in una carrozza sull’orlo dell’a-bisso e i cavalli si sono fatti ombrosi. Noi siamo al tramonto […] da noi, nella nostra vecchia Europa, tutto ciò che di buono e di peculiare avevamo è morto; la nostra bella ragione è divenuta follia, il nostro denaro è carta, le nostre macchine sanno soltanto sparare ed uccidere, la nostra arte è suicidio. Noi tramontiamo, amici, questo ci è dato in sorte […] Klingsor bevve e sussurrò con la sua voce un po’ rauca: Si può forse evitare il proprio destino? C’è davvero una libertà di volere? Puoi forse tu, astrologo, dirigere in altro modo i miei astri’? Non dirigerli, posso soltanto leggerli. Dirigerli lo puoi solo tu” (H. Hesse, L’ultima estate dl Klingsor [ Klingsors letzter Sommer], II ed. it., Milano, 1980, p. 64-69).

Ciascuno può, se lo vuole, ‘dirigere i propri astri’ per il proprio e l’al-trui benessere: è necessario non cristallizzarsi sui torti subiti in passato, vicino o lontano che sia, da parte di una persona o del ‘destino’. Si può decidere per una rielaborazione condivisa delle ferite inferte o ricevute.

Si può considerare ogni relazione come un giardino che se coltivato quotidianamente offre lo spettacolo multiforme di profumi, colori, fiori e piante, ma se abbandonato a se stesso presto diventa una selva incolta.

Sia che la convivenza forzata sia stata “un giardino” o un “campo pieno di rovi” io propongo di scrivere una lettera ai familiari, semplice ma diffici-le perché è utile solo se davvero veritiera e scritta dal profondo.

Lo so, non siamo più abituati a scrivere, abbiamo il blocco del foglio bianco. Ma questo non è esercizio né di bella forma né di esibizione di saperi. Né ci sarà alcuno che ci valuterà di conseguenza.

Con un po’ di coraggio occorre superare l’impasse iniziale e il gioco è fatto: come un fiume in piena la penna si metterà a scorrere sul foglio sotto dettatura della parte più profonda di noi, magari trascurando la parte razionale. Ne saremo soddisfatti ed orgogliosi.

Allora suggeriamo a chi lo farà qualche traccia orientativa:

In ultimo non deve mancare un ringraziamento per quello che si è avu-to e le scuse per quello che non si è saputo dare.

Il resto liberamente riguarda tutto ciò che il cuore vuol dire!

Questo è uno dei tanti modi per dire di sé quello che spesso si tace e at-tivare relazioni fondate sul riconoscimento dell’altro nella sua umanità, con i suoi limiti ed i suoi pregi: gli uni e gli altri egualmente importanti.


Alberto Casiraghy, acquarello su carta,
20x30cm, 2020

È infatti proprio la legittimazione dei demeriti,il loro riconoscimento e la loro ammissione che meglio fa risplendere i meriti.
E scopriremo così che uscire dal conflitto significa fruire di potenzialità nascoste: le stesse energie utilizzate per crearlo possono, infatti, essere trasformate sino a diventare la via per curarlo, per uscirne cresciuti ed accresciuti. Usciamo quindi dalla “reclusione forzata” a testa alta e non più scalcagnati di quando vi siamo entrati.