Come nasce il conflitto
interpersonale

e come trasformarlo

“Se non sei con me, sei contro di me!”.

Quante volte lo diciamo, in modi vari e in varie situazioni, senza avvedercene o in piena consapevolezza!

Altre volte lo subiamo: eravamo andati in cerca del dialogo, e non avremmo affatto voluto che la diversità di opinione fosse posta in termini così drastici!

Qualche volta lo rilanciamo come accettazione della sfida, dovunque questa conduca! E allora qualcosa si spezza dentro di noi. Un brandello della nostra umanità si stacca e finisce sull’altare della discordia.

È certo che il conflitto nella nostra vita apre una grossa falla in noi e in chi ci sta intorno che, quand’anche non sia coinvolto in prima persona, patisce lo stesso ciò che esso porta con sé: racconti estenuanti di situazioni problematiche, rabbia di non riuscire a disincagliarsi dallo scoglio che ci impedisce di continuare il nostro viaggio esistenziale, rammarico di non poter far fuori il nemico. Chi lo vive direttamente sente affievolirsi la disponibilità alle relazioni in generale, aumenta così la tendenza all’aggressività e alla contrapposizione. Così si riduce la capacità di espressione, si convogliano tutte le energie verso la difesa e l’offesa subita o agita. Anche la motivazione al lavoro precipita.

Troppo spesso, travolti dagli effetti immediatamente dannosi del conflitto, non si ha consapevolezza delle conseguenze che esso produce sulla qualità della nostra vita e il nostro stile di relazione. È così che a volte il conflitto si esaspera, si ingigantisce e può degenerare fino al reato penale.

Si pensi ai problemi di vicinato, alle incomprensioni fra genitori e figli, tra scuola e famiglia, o ai litigi fra marito e moglie, fra suocera e nuora: apparentemente evidenziano una conflittualità di poco interesse, un semplice quotidiano malessere relazionale. Sappiamo dai giornali però che purtroppo tali incomprensioni sono anche la radice di successivi fatti delittuosi. Si tratta di situazioni in cui le mancate risposte a un dialogo cercato, magari malamente, hanno alimentato forme di isolamento, di sfiducia, di esagerata trasgressione delle regole.

Esperimenti scientifici hanno dimostrato che delle pulci, rinchiuse in un barattolo di vetro, dopo aver sbattuto ripetutamente la testa contro il coperchio nel tentativo di spiccare il salto, per non provare dolore, si condizionano a fare dei salti di 19 cm, un centimetro in meno dell’altezza del vetro (eppure le pulci possono arrivare fino a 2 metri). E successivamente senza vetro quindi continuano a saltare 19 cm: si sono convinte del loro limite.

Anche gli esseri umani spesso si comportano come le pulci.

L’esperienza del dolore che ci viene dagli altri, riducendo la fiducia nell’umanità, condiziona i nostri comportamenti. A volte si esterna il proprio malessere, altre volte lo si tiene dentro. Ma la sofferenza è sempre alta. Mettiamo in atto un meccanismo automatico che apparentemente seppellisce il dolore e non ci rendiamo conto di quanto questo sia costoso, dannoso e limitante.

In ciò la causa di varie forme di disagio o di fratture insanabili che portano a decisioni drastiche. Quando ne vediamo i sintomi manifesti, di tipo fisico e/o emotivo, difficilmente riusciamo a vederne le radici, ormai troppo profonde, troppo sepolte dal susseguirsi di interventi inefficaci, di azioni controproducenti.

Per meglio comprendere il conflitto invito a decidere di guardare la vita quotidiana perché piccoli conflitti sono il punto di partenza per comprendere eventi di più vasta portata: nei suoi interstizi avviene tutto ciò che è importante per la vita sociale. Ogni giorno, tutti i giorni, compiamo gesti abituali e ripetitivi. E come noi tutti gli altri. Eppure in questa trama minuta di tempi, di spazi, di gesti e di relazioni avviene quasi tutto ciò che è importante per la vita sociale. Qui si produce il senso di quello che facciamo e stanno le radici di eventi ben più grandi.

Una personale mappatura del conflitto nei propri ambiti di vita, sociale, familiare, lavorativa, farebbe venire alla luce in concreto la vastità e la vicinanza del fenomeno e prenderne atto. Così anche lo si oggettiverebbe, gli si darebbe rilievo.

Ben si metterebbero in evidenza i motivi occasionali che più frequentemente lo determinano, le modalità in cui solitamente lo si gestisce, nonché gli effetti, le conclusioni a cui essi conducono.

Tale consapevolezza, a sua volta, costituirebbe già di per sé un volano del cambiamento, un elemento propulsivo nella ricerca di ipotesi comportamentali diverse.

Il conflitto non è un errore della natura, con cui siamo costretti, nostro malgrado, a fare i conti, ma è un evento. Fastidioso certo. Ma anche un’occasione. Vediamone alcune condizioni.

Non si deve avere paura di diventare protagonisti in un conflitto, mentre sarebbe devastante trascurarlo, senza prendersene cura.

È decisivo come decidiamo di gestirlo: meglio se da persone determinate, non in balia degli eventi, ma al a continua ricerca di un positivo equilibrio.

Può accadere che ci si scopra maldestri nel confronto con l’altro, incapaci di tenere a freno le nostre emozioni che potrebbero avere il sopravvento ed, in modo invasivo, permearci a fondo, sino a farci esplodere.

Le emozioni sono parte di noi, respingerle o rinnegarle non serve che ad allontanarci dalla nostra vera natura e dai bisogni profondi. Se accolte con consapevolezza, invece, possono svelarci di noi più di quanto potrebbero sortire estenuanti indagini a livello razionale.

In questo modo il conflitto ha un valore che potrebbe essere chiamato

“maieutico”, nel senso che è capace di spingerci ad intraprendere una meticolosa seria, seppure improba, ricerca, tra fili d’erba buoni e altri maligni.

Qui sta il bandolo della matassa, senza il quale, rischiamo di perdere la rotta della nostra vita.

Qui è nascosto il segreto: nell’idea stessa di conflitto che ci condiziona, ispirando i nostri comportamenti. Affinché il conflitto possa esserci svelato nella sua interezza, diventando una guida illuminante, dobbiamo svelare l’idea di conflitto che già abita in noi, nella quale noi ci riconosciamo ed a cui noi tutti attingiamo risorse emotive per fronteggiare le più disparate situazioni di disagio.

Farlo con intensità, convinzione ed energia, diventa liberatorio e fa affiorare dal suo nucleo profondo quella primordiale saggezza, sì da farci capire che si confligge solo con le persone con le quali si è instaurata una relazione, e solo quando si è scelto di esserne parte attiva cioè si vuole viverla senza essere rassegnati ad una sottomissione vissuta come ineludibile.

Che cosa ci resta, quindi, da fare?

Può apparire quasi banale, ma l’unica via percorribile è lasciarsi interpellare dal conflitto, lasciarsi coinvolgere, facendoci permeare da quel fluido esperienziale inusuale, con una atteggiamento non di resistenza, ma di accoglienza, di vivace curiosità, sapendo che si sta vivendo un’avventura nuova e positiva che dobbiamo essere in grado di comprendere e decodificare con razionale distacco.

In questo modo comprenderemo che ci sono vie pacifiche per uscire anche dalle situazioni di più acuto disagio, risolvendo alla base, e per sempre, le ragioni del contrasto.

Da evitare l’impulso a delegare a generici ‘altri’ il compito di traghettarci fuori dal conflitto, nell’illusoria speranza che attorno a noi si possano trovare ‘consiglieri’, ‘aiutanti’: costoro non potranno fare altro – nella migliore delle ipotesi – se non esprimere, nella loro visione personale e difforme dalle nostre necessità, il loro personale punto di vista. Ma quello che conta è uscire dal conflitto nel modo che noi, solo noi, convince.

Maurizio Pometti, Tutti giù per terra, olio su tela, 60x120cm, 2018