È singolare in questa fase storica del distanziamento sociale e della convivenza forzata che “la distanza” diventi l’unica condizione possibile per tornare alla nostra quotidianità e, gradualmente, di riavvicinarci all’altro. Ma spesso occorre passare per “la via stretta” del diverbio , dell’amarezza, della rabbia. Della difficoltà di stare insieme.
In tempo di coronavirus tutto è per la prima volta.
Se uno scienziato avesse voluto fare un esperimento di antropologia, costringendo milioni di noi a restare dentro casa per un periodo di tempo, probabilmente sarebbe stato preso per folle e sicuramente non avrebbe potuto realizzare un progetto di ricerca così ampio.
Eppure ciò sta accadendo, senza la follia di nessuno, e ben oltre i confini di una nazione: è bastato un invisibile virus.
E ora per la prima volta diventa un’evidenza che siamo tutti interconnessi e tutti vulnerabili.
Dura da accettare ma si tratta di una regola basilare della nostra condizione di terreni, che in tempi di normalità consideriamo astrattamente.
Ora dovrebbe incidersi nel nostro vissuto come consapevolezza duratura e non pura teoria. Una disperazione con cui convivere. Un ridimensionamento della nostra smania di autosufficienza e perfino di onnipotenza.
In questo enorme esperimento in cui siamo tutti dentro, alla tragedia di morti nella solitudine e familiari lontani, si oppone la vicinanza costretta di coppie e nuclei familiari.
Non meno grave del distanziamento sociale sembra stia diventando l’accorciamento delle distanze tra gli “intimi”.
Tutti dentro uno spazio, la casa: per alcuni si conferma un rifugio, per altri diventa prigione.
Ci vogliamo qui occupare dei molti per cui non è un felice set casalingo dove armoniosamente si condividono spazi ampi per fare smart working o smart schooling. Ma luogo dove la mancanza di distanza fisica fa esplodere il malessere che cova in ognuno, disorientato per tutti i sovvertimenti sopraggiunti improvvisamente, per la paura della sopravvivenza, che si resti vivi e non, per la perdita dei riferimenti e dei riti a cui si era abituati. In queste condizioni anche un intoppo innocuo della tecnologia sconvolge la nuova logistica domestica. E si perde “la pace”. Si litiga. Si alzano muri. Regna il silenzio carico di rancore al posto delle parole d’amore.
E soprassediamo sui racconti di chi grazie alla quarantena è stato folgorato dalla riscoperta del coniuge o di chi ha fatto il confronto con affetti paralleli e ha riscelto la famiglia; di chi si è eccitato nell’inventare stratagemmi per mantenere rapporti clandestini. Non ci occupiamo neanche di chi, già formalmente fuori casa si trova a dover permanere nella casa coniugale o chi in essa vi perpetra violenze.
Qui vogliamo puntare l’attenzione a situazioni ben più serie e generalizzate, quelle dei “normali” rapporti familiari.
E per la prima volta dobbiamo arrenderci all’evidenza: la potenza devastante del Coronavirus sta facendo saltare, con la convivenza forzata, le impalcature di ipocrisia e di comodo che, come formiche operaie, abbiamo costruito nei nostri rapporti per farli stare “in piedi”.
“In piedi”, in qualche modo. In un modo, politicamente corretto, in cui troppo spesso due estraneità riescono a non diventare mai intimità.
Legittimate a coesistere, con i tempi frettolosamente risicati, così ben dipinti nei racconti scanzonati e irriguardosi di George Bernard Shaw.
Solo che in questi giorni c’è poco da ridere.
Prima tutti erano sempre altrove, tutto era rimandato ad altro momento. Giocare e fare i compiti con i figli, scambiarsi confidenze e tenerezze col partner, fare le cose che piacciono, da soli e/o insieme a chi si ama, accogliersi nelle gioie e nelle paure, coltivare la bellezza, la musica, l’interiorità. Costruire i rapporti con l’altro in equilibrio tra i nostri bisogni e le sue aspettative!
Ora sarebbe possibile, e anche necessario, fare tutto ciò ma non riusciamo.
Dobbiamo armarci di coraggio. Come “scienziati” dobbiamo osservare al microscopio la salute del nostro mondo affettivo.
Se spalanchiamo gli occhi su certe modalità che fino ad ieri sembravano accettabili ed ora sono un intollerabile inferno, si aprono per noi giorni preziosi per preparare giorni migliori.
Giorni per vivere così come siamo stati strutturati: esseri umani fatti per essere felici, per avere rapporti di valore, gratificanti, vitali. Per amare…
ad immagine e somiglianza…!
Ma come il Sommo Poeta Dante nella commedia ci mostra, dobbiamo sprofondare negli inferi: lì affrontare errori, paure, miserie per sconfiggerli.
Allora i motivi per cui nella giornata litighiamo, e che ci avvelenano l’esistenza, ci sembreranno banali e solo effetto di qualcosa di più profondo che vogliamo vedere e aggiustare.
Non c’è via d’uscita che concedersi di sentire, forte così come è, il fastidio che cresce di giorno in giorno, l’insofferenza verso l’altro. La voglia di fare progetti di fughe e rotture.
Invece che fantasticare, come quando si è in prigione, per non restarne schiacciati, dobbiamo stare ben svegli e per la prima volta guardare in faccia un’altra verità basilare del vivere umano: istintivamente l’altro non ci piace! E non possiamo illuderci che non ci sia nulla da fare.
Né farci prendere da altro sconforto: ce n’è già abbastanza e non serve.
Bensì dobbiamo correre a curare il “virus affettivo” di cui siamo stati da lungo tempo portatori sani e contagiosi!
Non si tratta di cambiare l’altro ma di superare il livello istintivo da cui incontriamo l’altro. L’amore è frutto di maturità e coltivazione di capacità. E tutti noi siamo abbastanza incompetenti.
Possiamo attivare un circuito virtuoso così come invece tante volte abbiamo favorito quelli viziosi. Così come, in negativo, quando alla nostra eventuale mancanza di fiducia, di poco coraggio nel rischio di iniziare a voltare pagina e percorrere nuove vie, magari desuete, abbiamo attirato uguale sfiducia, mancanza di speranza e di coraggio nell’altro.
Essere riconosciuti, compresi e rispettati è un desiderio, che, indipendentemente dallo status sociale, dalla cultura e dall’età, accompagna spesso la nostra vita. È solo così che riusciamo a essere noi stessi: quando gli altri ci accettano e ci riconoscono per come siamo.
Spesso siamo convinti che questa condizione possa realizzarsi nell’ambito delle relazioni più profonde, dalla coppia alla famiglia fino agli amici: un’aspettativa che spesso viene delusa proprio perché riguarda chi è più vicino a noi.
Ancora più difficile se una relazione ha un’età avanzata, se dura da tempo, perché in questo percorso di vita insieme cambiamo e anche l’altro cambia, riconoscerlo e accettarlo è ancora più difficile.
In generale tutto ciò che attiene alla relazione è un terreno complesso e scivoloso perché comporta l’incontro tra diversità, anche se nascoste in “ruoli” dettati da ambiti diversi, professionali, familiari, di vicinato, ecc.
Ecco perché il conflitto, latente o espresso chiaramente, non risparmia nessuno e nessun tipo di relazione, soprattutto laddove i rapporti sono profondi.
Nella coppia le richieste, i bisogni, le aspettative sono, spesso, un’unità di misura per i sentimenti che, a loro volta, sfuggono ai tentativi di essere misurati e prevedibili. Nell’ambito professionale abbiamo spesso bisogno di gratificazioni, che non arrivano. La casa, rifugio per antonomasia, può diventare un bunker se ci sono ostilità con il vicinato.
L’elenco dei micro e macro conflitti è lungo: ogni qualvolta ci avviciniamo all’altro, il rischio che la sua diversità possa scatenare un conflitto è sempre alto. Tentare di evitare questa verità profonda dell’essere umano è qualcosa che s’intreccia con la paura di vivere. Tra il rinunciare al conflitto, sperando di bloccarlo e il cercare sempre il conflitto, la terza via esiste ed è l’unica che ti permette di vivere pienamente: imparare a gestire il conflitto. Questi i passi che faremo giorno dopo giorno con queste righe. Auspichiamo che il lettore non voglia leggere velocemente, ma decida di lasciarsi interpellare dalle domande di senso che porremo, a cui seguiranno poi suggerimenti, accorgimenti, comportamenti, consigli pratici che potrà risultare utile mettere in pratica.
Abbiamo tra le mani l’opportunità di giorni preziosi per preparare giorni migliori. Iniziamo noi.