Non andrà tutto bene se neghiamo la paura

Possiamo chiamarle vie di fuga?

Anche se l’umanità nel passato, ed ancora oggi nel mondo, si confronta con molto peggio di quel che noi stiamo vivendo, noi siamo ammuto-liti e risentiti trovandoci improvvisamente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana: la biologia annulla tutte le nostre illusioni e prete-se sicurezze di potere, di controllo.

Così, subito, all’inizio dell’emergenza ci siamo precipitati a fare i flash mob, ad inneggiare ed esaltare chi per noi si stava impegnando contro il virus, ad incrementare col telefonino gli scambi ossessivi di messaggi di ogni genere (comprese le fake news), a lasciarci andare all’ironia e all’umorismo. Abbiano fatto e ascoltato inviti a guardare il bello che intorno sta nascendo in termini di dedizione al lavoro, di solidarietà, di affidabilità. Abbiamo fatto nostro il cartello: “tutto andrà bene!!!”.

E perché mai? Cosa stiamo facendo perchè ciò si avveri? Abbiamo avu-to l’illuminazione sulla via di Damasco e siamo rinsaviti di botto? Abbiamo imparato che abbiamo responsabilità varie e sempre reciproche, che da soli non ci salviamo, che siamo fragili e vulnerabili, che siamo ridicoli con la nostra supponenza e la nostra tracotanza? Che la coope-razione moltiplica i vantaggi e non li sottrae?

Oppure siamo quelli di sempre, chiusi nel nostro egoismo, attenti a guardare i nostri bisogni, a salvaguardare i nostri vantaggi e all’occor-renza come belve attaccare chi temiamo voglia rubarci l’osso?

Quindi le nostre reazioni plateali, prima ricordate, possono, realistica-mente, essere considerate il termometro dell’angoscia e della tensione che dentro montava e toccava livelli insostenibili. Bisognava trovare una via per calmierarla e soddisfare il bisogno di scioglierla, di ridimensio-narla, di toglierle la potenza, fino a tentare di ridurla in …barzelletta!

Giusto. Utile. Ma insufficiente.

Peccato che sia stata solo questa la presa in carico del nostro dolore, del nostro malessere.


Alberto Casiraghy, acquarello su carta, 20x30cm, 2020>
Peccato che nulla o poco si è fatto successivamente per elaborare i potenti e sconvolgenti vissuti di cui giorno dopo giorno si diventava preda.

Ci siamo limitati di contrapporre allo sgomento la gioia di cantare, accontentandoci di farlo in un clima irreale di quartiere, dove fino al giorno prima si viveva, ignorandosi, da perfetti sconosciuti.
Poi abbiamo applaudito gli eroi: al personale sanitario. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi tuonava Bertold Brecht.

Eroi perché mai?

Sono legati al giuramento di Ippocrate, la loro professione si realizza nel curare e salvare le vite umane.

Forse sono solo vittime di un sottodimensionamento del personale e della carenza di idonee strutture. Vero è che si trovano di fronte ad un evento imprevisto e quindi sono sottoposti a particolare stress…

Ma il rischio che hanno corso forse dovrebbe risvegliare in ognuno di noi il senso di responsabilità sociale: non avrebbero dovuto correre rischi. Nostro compito era provvedere perché operassero, tutti e da subito, in sicurezza.

L’importanza dei sanitari e degli studiosi è rimbalzata, mai come in questa occasione, con la massima evidenza agli occhi di tutti. Da loro dipendiamo come smarriti bambini.

Questo avrebbe dovuto fondare la certezza che la competenza conta, va rispettata, va valorizzata e riconosciuta. Il vero rischio sociale, eco-nomico, politico, istituzionale è l’incompetenza, l’ignoranza, l’appros-simazione. Ciò avrebbe dovuto imprimersi nella nostra mente a chiare lettere e orientare i nostri pensieri e i comportamenti di conseguenza.

Ma così non sembra.

Quindi si può ritenere che le reazioni plateali a cui abbiamo fatto cen-no, non sono state espressione di forza, di coraggio ma di reazioni su-perficiali e di negazione infantile della paura di ammalarsi, di soffrire, di essere dipendente dagli altri, di perdere le sicurezze.

Oppure di scaramantiche forme per esorcizzare la paura.

Risultato è che siamo attraversati da esaltazione e depressione, genero-sità e aggressività, e altri opposti di questa natura.

Non sembra di intravvedere pertanto il germe di un radicale, anche se piccolo, vero cambiamento che si fonda sulla consapevolezza che, obtorto collo, non possiamo controllare la natura così come l’altro essere umano: entrambi sempre imprendibili, non sottomettibili o non controllabili!

Che dobbiamo con coraggio guardare alle macerie dentro di noi per cogliere questa evenienza come opportunità di vera ricostruzione del Paese. Questo significa fare i conti anche con il trauma emotivo che si è inciso nel nostro animo e liberarcene per tornare a guardare la vita con nuove aperture.

Urge un vero cambiamento. Senza un nuovo umanesimo la ricostruzione sarà stentata e di poca efficacia. Il nuovo umanesimo non si basa su utopie o su un dover essere astratto ma su nuove competenze accessibili a tutti, di cui tutti sentiamo bisogno, di cui tutti speriamo l’altro ci fac-cia dono. Imparare a concentrarci sull’essenziale che nella vita conta, significa di conseguenza agire nuove modalità: in famiglia, al lavoro, in società.

Noi per primi.